Ricordo di bambino
“Non posso, devo tornare a casa” risposi, volgendo lo sguardo altrove. Il nonsolo mi guardò con un’ espressione delusa.
Non era la prima volta che la sua aria dimessa mi colpiva. Tutti consideravano Mario un tipo strano, con qualche rotella fuori posto, ma quel suo candore trasandato ispirava ai miei occhi di bambino sognatore, una solidarietà istintiva, mi spingeva a difenderlo dalla derisione dei fioi per i suoi calzini portati con i sandali o le vistose macchie d’unto sulla camicia.
Guardandomi intorno vidi quasi tutti gli altri chierichetti allontanarsi velocemente dal campo veneziano; mi resi conto che Mario non aveva grandi alternative al mio contributo, divenuto indispensabile per quanto doveva fare.
Eravamo accorsi numerosi al Servizio religioso del “Lavaggio dei Piedi”, nel primo pomeriggio di quel Giovedì Santo. Nessuno di noi, abituali frequentatori dell’Oratorio, per nulla al mondo, si sarebbe persa questa Funzione, dopo le grandiose testimonianze che erano circolate sulle sue passate edizioni: puzza diffusa nei pressi dell’Altare Maggiore, grossi calli doloranti emersi da calzini sudici; leggende di Parroci che turandosi il naso si erano rifiutati di lavare piedi di una sporcizia mai vista o che avevano chiesto un pezzo di sapone al chierichetto più vicino.
La comune speranza era che i piedi prescelti per il lavacro fossero stavolta proprio quelli di Mario, misteriose estremità da sagrestano che sicuramente avrebbero riservato uno spettacolo straordinario. Ma il Parroco si era orientato sui piedi, molto meno avventurosi, del giovane Vicario, per cui la cosa era filata liscia, anche troppo, in rapporto alle nostre attese. Mi ero perso anche la smorfia di disgusto che Domenico, accanto a me nel presbiterio, giurava di aver colto sul volto del Celebrante, durante l’operazione.
E adesso stavo lì, titubante sul da farsi: andare a finire i compiti delle vacanze pasquali o invece restare, aggiungendomi al paio di compagni in qualche modo trattenutisi?
Fu quando il sagrestano mi voltò le spalle, avviandosi mogio verso la scalinata della Chiesa, che le cose presero decisamente il loro corso. La vista delle grandi toppe nere che partendo dal cavallo dei suoi pantaloni beige coprivano parte dei glutei, diedero il colpo di grazia alle mie esitazioni: uno così, non si poteva non aiutare, non nella settimana di Pasqua!
“Cara mamma, oggi, nel campo davanti la Parrocchia, ho capito quanto importante e gioioso sia dare un sostegno ai semplici nel momento del bisogno…”
Scrissi mentalmente l’inizio della nuova pagina del mio improvvisato libro Cuore, gli incipit di lettera con i quali davo sfogo al mio narcisismo di bambino sensibile e coscienzioso.
Rasserenato dal mio ripensamento, Mario impartì le sue disposizioni operative: “Io e Cesare andiamo verso la stazione, tu e Domenico dall’altra parte. Al di qua del Ponte delle Guglie andate a sinistra, e lungo la fondamenta suonate via via i campanelli. Ecco i simboli della Pace!”.
Mi ritrovai in mano una bottiglia, la cui forma panciuta rendeva inconfondibile il marchio dell’aranciata che aveva contenuto. Adesso era piena d’acqua, anzi di Acqua Benedetta, da distribuire – ci spiegò il sagrestano – nelle case dei fedeli, specie se vecchi e malati, insieme ai rami di ulivo, il cui mazzo Domenico reggeva orgogliosamente.
“Mi raccomando le offerte…”, fece in tempo a gridarci Mario mentre ci allontanavamo, saltellando, lungo la nostra strada.
Oltre il Ponte delle Guglie (ma cosa aveva detto il nonsolo, prima o dopo il ponte? boh…) ci fu una sosta a base di pinza e castagnaccio, acquistati nel negozietto un po’ sporco che, in quei primi anni Sessanta, vendeva, a poche lire, ghiotti dolci di farina.
Fu mentre, seduti sulla riva, sbocconcellavamo la nostra merenda fuori stagione che Domenico, fattosi d’improvviso serio, sferrò un attacco proditorio, proprio come il Conte di Rochefort contro D’Artagnan: “Io sono milanista purosangue” affermò, “Ho tifato sempre e solo Milan. E tu?”. Il suo era uno sguardo indagatore.
Per un istante rimasi allibito, ma, fissandolo anch’io negli occhi, seppi ribattere con prontezza: “Certo che sì!”. Speravo che non avesse colto nella mia risposta quel briciolo di fretta eccessiva.
Ma che cavolo di domanda mi aveva fatto? E allora tutti i nostri discorsi sul “Milan squadra più forte che c’è”, tutte le nostre certezze che “meglio di Rivera c’è solo Pelé”, non avevano avuto alcun significato? Stava mettendo in dubbio l’integrità della mia fede?
A meno che… no, lui non poteva sapere di quella maglia juventina, con il 10 di Sivori, che un parente ignaro mi aveva regalato e che ora giaceva appallottolata in un angolo del cassetto. L’avevo messa un paio di volte su insistenza di mia madre, ma tanti anni fa, da piccolo, prima di giurarmi al Milan e non ricordavo che Domenico ci fosse in quelle occasioni. E allora perché questa domanda e quello sguardo di superiorità con cui non smetteva di osservarmi? Qualcuno aveva forse parlato?
“Ora andiamo” -dissi alzandomi di scatto, con in mano la bottiglia ricolma- “ma da che parte?”.
“Ha detto a sinistra” fece Domenico afferrando le fronde d’ulivo: “Idea!” dissi io “andiamo nelle calli vicine al nostro vecchio asilo!”.
“Nel Ghetto?”
“Sì nel Ghetto, quella zona la conosciamo bene!”.
“Giustooo…” convenne lui.
Ci avviammo, ed ero un po’ preoccupato: l’effetto libro-Cuore svanendo, stava lasciando spazio ad una certa ansia per l’incombenza assegnataci.
Suonare il campanello di famiglie sconosciute. E se qualcuno ci avesse davvero aperto? Entrare nelle case e addirittura chiedere un’offerta! Davvero troppo per la mia timidezza! Accidenti alla mia mania di voler parere agli altri un bambino sicuro di sé!
Attraversato un “sotoportego”, cominciammo a suonare i campanelli di una lunga calle; le cose, per fortuna, si stavano mettendo bene: o non rispondeva nessuno (chissà quante cose la gente ha da fare nel pomeriggio del Giovedì Santo!) o, se qualcuno si affacciava alla finestra, conosciuto il nostro compito ci ringraziava con un sorriso, dicendo che non serviva.
Andava benissimo così: in fondo quello che ci era stato richiesto lo stavamo facendo; se poi non c’erano vecchi e malati bisognosi di conforto mica era colpa nostra! Mario avrebbe di sicuro capito.
Giungemmo nel grande campo, al solito vuoto e silenzioso, dove l’unico rumore era il getto d’acqua che usciva dal beccuccio della fontanella di ghisa.
Quel luogo, pur vicinissimo a casa, mi era sempre sembrato misterioso, come se nell’aria aleggiasse qualcosa di indefinito che non mi invitava al gioco.
Suonammo al portone di una casa altissima e una signora si affacciò alla finestra. “Quinto piano” disse e un apri-porta sonoramente scattò.
Ci guardavamo perplessi con Domenico, salendo in silenzio le ripide scale di marmo. Solo in un’altra occasione avevo visto case con tanti piani; era stato a Mestre, il giorno che per la prima volta avevo messo piede in un ascensore!
Al piano, entrammo esitanti in una cucina spaziosa, con un grande tavolo al centro e le finestre che davano sul lato del campo. Conoscevo questa disposizione: anche nelle case di alcuni miei amici si entrava nella cucina-tinello e da qui si passava poi alle camere da letto e al bagno.
La giovane signora in grembiule era spettinata e dall’aspetto trascurato. Ci rivolse uno sguardo pieno di preoccupazione.
“Venite, tu versa pure qua l’acqua” disse, porgendomi un’anforetta di vetro che all’esterno aveva raffigurato un candelabro con tante braccia. La riempii fino all’orlo con l’Acqua Benedetta. “Di là c’è mio figlio che dorme, è malato” sussurrò “quest’acqua gli servirà perché è un dono di Dio. È tempo di Pasqua per tutti e in fondo abbiamo lo stesso Dio, no?”
Guardai di sbieco Domenico, che stava deponendo sul tavolo un ramoscello d’ ulivo; capii che anche lui era rimasto sorpreso da quelle parole. Non ne avevo capito davvero il senso, in quella casa c’era qualcosa che ci stava sfuggendo.
Cosa significava che avevamo lo stesso Dio? Perché c’era qualche dubbio? Mica ci poteva essere un Dio diverso! Avevano fatto Santo anche Geremia, quello della nostra Parrocchia, che era un profeta vecchissimo, vissuto tanto prima di Gesù! E allora?
La signora prese da un borsellino una moneta da cinquanta lire e me la allungò. La ringraziai con un sorriso di gratitudine, soprattutto perché mi aveva evitato di dovergliela chiedere.
Ricordo che le ombre serali degli edifici cominciavano a danzare sui rii mentre tornavamo alla base, riattraversando, con aria abbacchiata, il Ponte delle Guglie.
Non era andata benissimo: l’incontro con quella mamma triste e il pensiero del suo piccolo Nemecsek a letto malato, ci avevano tolto allegria, pur se solo grazie a loro la nostra missione non era stata un fallimento totale.
Rimaneva qualcosa da chiarire su Dio, la Pasqua, il Ghetto ed i suoi abitanti, ma forse Mario, che vedevamo in lontananza con le sue toppe e la camicia macchiata, per quanto svitato, ci avrebbe aiutato a fare un po’ di chiarezza.
La telefonata
“Guarda che mi ha fatto quel disgraziato!”. Allo specchio del bagno, l’occhio appariva gonfio di un livido bluastro e lacrime di rabbia. Denise inzuppò il bordo dell’asciugamano nell’acqua fredda e compresse il turgore.
Sola in casa, si stese sulla penisola del divano di pelle. Dopo il litigio lui l’aveva picchiata di nuovo. Poi era scappato in Tribunale, il brillante avvocato, stimato da tutti! Che picchiava la moglie. Denise provava insieme collera e disperazione: sentiva di detestarlo come mai prima.
Non era andata sempre così. All’inizio erano stati felici; lui l‘aveva introdotta in ambienti raffinati, le era sembrato di vivere un sogno. Poi si era allontanato, forse la tradiva. E aveva cominciato ad alzare le mani.
Si era trovata a scavare dentro di sé, convinta che alla base di questa situazione ci fosse nient’altro che la propria inadeguatezza. La carrellata auto-punitiva era stata condotta più volte. Partiva dalla sua condizione sociale -la figlia di un ferroviere andata in sposa al rampollo di prestigiosi civilisti- passava per le sue ansie ricorrenti per arrivare alla paura di sciare o alla nausea che l’affliggeva quando uscivano in barca.
Poi c’era la questione dei figli. Ricordava quel pomeriggio nello studio dello specialista: “E’ come se i vostri organi avessero una sorta di incompatibilità. Questi casi sono complicati, a volte però il miracolo succede”. Non era stato così.
In camera estrasse dal comò il diploma del Liceo Artistico. Lo faceva spesso negli ultimi tempi, per recuperare un briciolo di autostima, ma anche perché ora vedeva in quell’attestato una possibile via di fuga. Rammentò uno dei proverbi popolani con i quali sua nonna solleticava la sua fantasia di bambina: parlava di porte che nella vita si aprono quando altre si serrano. Ma Denise sentiva che questa porta, da sola non l’avrebbe mai saputa chiudere.
L’immagine dell’occhio adesso era violacea. Dallo stereo, la passione malinconica di un tango argentino si liberò nell’aria, mentre lei, seduta al pc, accendeva una sigaretta. Digitò sul palmare il numero trovato in rete e una voce femminile le si rivolse, cortese.
Esitò un lungo istante, prima di sussurrare: “Ho bisogno d’aiuto”.
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